Covid, divieto di circolazione e autocertificazione: quando la differenza tra "fatto" e "intenzione" ci solleva dalla sanzione

Con i recenti provvedimenti governativi, emanati al fine di contenere la diffusione epidemiologica del Covid-19, abbiamo subito restrizioni, più o meno stringenti in base al c.d. indice Rt, causando una differenziazione di “colore” delle regioni italiane: dal giallo, che prevede divieti meno rigorosi, al rosso, dove, invece, le restrizioni sono più esigenti.

Proprio nelle zone rosse è stato imposto il divieto di circolazione, anche all’interno del proprio Comune, se non per i motivi ormai a tutti noti: comprovate esigenze lavorative, situazioni di necessità, motivi di salute.

Le forze dell’ordine, nel corso degli accertamenti volti a verificare il rispetto della normativa e, quindi, le motivazioni per le quali ci si trovi fuori casa, si imbattono - con frequenza - in ragioni non veritiere, talvolta anche fantasiose, avanzate dai soggetti fermati.

 

Rischi in caso di falsa dichiarazione

Ma, al di là delle sanzioni previste in caso di violazione della normativa anti-Covid-19, cosa si rischia dichiarando il falso dinanzi al pubblico ufficiale?

Nell’autocertificazione da compilare è infatti scritto nero su bianco che le dichiarazioni sono rese con la consapevolezza delle “conseguenze penali previste in caso di dichiarazioni mendaci a pubblico ufficiale (art. 495 c.p.)”.

L’art. 495 c.p., “falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale sulla identità o su qualità personali proprie o di altri”, punisce chiunque dichiari o attesti falsamente, al pubblico ufficiale, l’identità, lo stato o altre qualità della propria o dell’altrui persona con la reclusione da uno a sei anni.

La norma delimita dunque la configurabilità del reato nel caso in cui oggetto della dichiarazione mendace siano: 1) l’identità, intendendosi con tale termine il nome, il cognome, la data e il luogo di nascita, la paternità e la maternità; 2) lo stato, cioè la cittadinanza, la capacità di agire, lo stato libero o coniugale, parentela, ecc; 3) altre qualità, intese come indicazioni che concorrono a stabilire le condizioni della persona, ad individuare il soggetto e a consentirne l’identificazione (es. residenza, domicilio, professione ecc) e alle quali l’ordinamento ricollega effetti giuridici.

Appare dunque pacifico ritenere che possa configurarsi il reato di cui all’art. 495 c.p. nel caso in cui la falsità abbia ad oggetto gli elementi appena indicati.

Ad esempio, con riguardo alle “altre qualità”, è stato sostenuto che la falsità riguardante il non trovarsi posto in quarantena e il non essere positivo al virus potrebbe rientrare nell’ambito applicativo dell’art. 495.

Tuttavia, questo orientamento si presta facilmente a critiche perché nella nozione di “qualità” personale non rientra ogni connotato della persona cui l’ordinamento riconnette effetti giuridici, ma solo gli aspetti idonei a favorire l’individuazione del soggetto nella società. La caratteristica di “soggetto non sottoposto a quarantena” o di “soggetto non positivo al virus” potrebbe non soddisfare adeguatamente detto requisito.

Altra fattispecie di reato ipotizzabile, seppur non indicata nelle autocertificazioni prestampate, è quella prevista e punita dall’art. 483 c.p.: “falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico”, configurabile, in astratto, nel caso di falsa motivazione resa dal privato al Pubblico Ufficiale per giustificare il proprio spostamento da casa.

Ebbene, l’art. 483 cit. punisce con la pena della reclusione fino a due anni chiunque attesti falsamente al pubblico ufficiale, in un atto pubblico, fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità.

Nel caso di compilazione di autocertificazioni, sussistono tutti i requisiti sufficienti ai fini della consumazione del reato: obbligo di verità, efficacia probatoria dell’atto, equivalenza tra autodichiarazione e dichiarazioni rese al Pubblico Ufficiale.

In attesa di interventi chiarificatori della giurisprudenza aventi ad oggetto le fattispecie di reato consumate in questo periodo, segnato dall’emergenza epidemiologica, ci siamo chiesti quali siano le conseguenze della condotta di chi, fermato in strada dal pubblico ufficiale renda delle dichiarazioni mendaci sulle ragioni del proprio spostamento (astrattamente vietato), mediante consegna dell’autodichiarazione scritta (sia essa compilata prima di lasciare la propria abitazione o durante il controllo medesimo).

In primo luogo c’è da chiedersi se i termini “motivazione” o “motivi” possono rientrare nel più ampio concetto di “fatto”, richiesto espressamente dalla norma incriminatrice ai fini della consumazione del reato.

Possiamo dire che, in linea di principio, il cittadino sottoposto al controllo potrà attestare un “fatto” già compiuto, dunque già concretizzatosi nella realtà esteriore: il privato può quindi dichiarare di essere fuori casa per aver compiuto una determinata azione ammessa e, in tal senso, giustificata dai veri decreti (es. “sono stato a lavoro”; “sto tornando a casa dopo aver portato medicinali urgenti a un parente anziano”, ecc.).

In questo caso possiamo affermare con certezza di essere dinanzi ad un “fatto”, idoneo ad essere attestato in quanto evento già realizzatosi.

Quando invece si fa riferimento ad un “fatto” non ancora verificatosi ma oggetto di una mera intenzione, non pare siano sussistenti gli elementi richiesti ai fini della consumazione della fattispecie delittuosa in disamina.

In tale ipotesi, infatti, oggetto dell’attestazione sarebbe un intento futuro.

 

“Fatto” e “intenzione”

A questo punto, sarà necessario appurare se il cittadino abbia dichiarato un “fatto” o piuttosto una “intenzione”: soltanto nel primo caso il dichiarante potrà essere accusato di falsità.

Sul punto è dirimente una recente pronuncia del Tribunale di Milano, Giudice per le Indagini Preliminari.

Oggetto della valutazione del Giudice era la condotta di un soggetto il quale, in sede di autodichiarazione resa ai sensi degli artt. 46 e 47 Dpr 445/2000, consegnata alle Forze dell’Ordine nell’ambito di controlli sul rispetto delle misure emergenziali, aveva riferito una circostanza (cioè che si stesse recando da un collega per ritirare dei pezzi di ricambio) poi rivelatasi non vera.

Il Giudice ha dichiarato che sebbene non vi siano dubbi circa il fatto che l’intenzione dichiarata dall’imputato nel modulo di autocertificazione non abbia trovato riscontro nei successivi accertamenti della Polizia giudiziaria (…) va, tuttavia, escluso che tale falsità integri gli estremi del delitto di cui all’imputazione, in quanto l’art. 483 c.p. incrimina esclusivamente il privato che attesti al pubblico ufficiale ‘fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità’”.

E infatti, il Giudicante, nell’applicare i principi di diritto consolidato, ha affermato che:

  • “la nozione di ‘fatto’ non può che essere riferita a qualcosa che già è accaduto ed è perciò, già in quel preciso istante, suscettibile di un accertamento, a differenza della intenzione, la cui corrispondenza con la realtà è verificabile solo ex post”;
  • “la norma è finalizzata ad incriminare la dichiarazione falsa del privato al Pubblico Ufficiale in relazione alla sua attitudine probatoria, attitudine che evidentemente non può essere riferita ad un evento non ancora accaduto”;
  • la stessa normativa in tema di autocertificazioni indica i fatti insieme agli stati e alle qualità, caratteristiche, queste, già presenti al momento della dichiarazione.

Ciò vale a dire, come si legge nel provvedimento, che “mentre l’affermazione nel modulo di autocertificazione da parte del privato di una situazione passata (si pensi alla dichiarazione di essersi recato in ospedale ovvero al supermercato) potrà integrare gli estremi del delitto de quo, la semplice attestazione della propria intenzione di recarsi in un determinato luogo o di svolgere una certa attività non può essere ricompresa nell’ambito applicativo della norma incriminatrice, non rientrando nel novero dei “fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità”.

Pertanto, da quanto brevemente accennato, appare evidente che l’attuale contesto emergenziale, caratterizzato dal frequente ricorso all’emanazione di provvedimenti normativi, rischia di porre i cittadini dinanzi a prescrizioni poco chiare, con il pericolo di causare una violazione del principio di legalità, in osservanza del quale la legge deve determinare con precisione le fattispecie di reato, indicando, in maniera chiara, quali condotte abbiano rilevanza penale.

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