Appalti, interdittiva antimafia, commissariamento ed utile d'impresa.

La recente sentenza della Corte Costituzionale n° 101 del 23.5.2023 ha chiarito e ribadito la legittimità della norma (articolo 32 commi 7 e 10 del DL 90/14) laddove, per come interpretato dalla giurisprudenza alla luce del cd “diritto vivente”, impone la restituzione alle stazioni appaltanti della quota di utili percepita dall’impresa sottoposta a commissariamento in vigenza dell’interdittiva antimafia, qualora all’esito dei vari ricorsi giurisdizionali l’interdittiva venga confermata in via definitiva.

La spiegazione della vicenda richiede una breve premessa: qualora nel corso di un appalto pubblico l’impresa aggiudicataria venga colpita da interdittiva antimafia ciò comporta immediatamente la decadenza dell’affidamento, posto che l’interdittiva genera com’è noto l’incapacità a contrarre con la P.A.

Vi sono tuttavia casi particolari in cui la rilevanza dell’affidamento, e l’interesse pubblico a garantire la continuità del medesimo assumono natura prevalente ed impongono la prosecuzione dell’affidamento.

Per queste ipotesi (frequenti sono i casi di servizi di spazzamento e raccolta rifiuti) l’art. 32.10 del DL 90/14 ha previsto l’istituzione di un “ commissariamento” del singolo contratto.

Tale disposizione prevede che il Prefetto che abbia emesso un’informazione interdittiva, al fine di assicurare il completamento dell’esecuzione del contratto possa adottare diverse misure di sottoposizione dell’impresa appaltatrice ad un regime di “legalità controllata”, tra cui la nomina di amministratori straordinari per la gestione del contratto.

Tale misura prefettizia, che consente quindi la prosecuzione dell’affidamento, cessa in via naturale con l’ultimazione della prestazione contrattuale, ovvero col sopravvenire di provvedimenti favorevoli all’impresa costituiti dall’annullamento dell’informazione interdittiva.

La norma, onde evitare che l’impresa possa beneficiare di utili che non le spetterebbero (qualora fosse confermata l’interdittiva) prevede che gli amministratori prefettizi accantonino l’utile dell’impresa derivante dalla esecuzione dei contratti da loro gestiti in apposito fondo che «non può essere distribuito né essere soggetto a pignoramento» sino all’esito dei giudizi penali, nel caso del commissariamento anticorruzione, o sino all’esito dei giudizi amministrativi di impugnazione dell’interdittiva.

La norma non specificava tuttavia chiaramente quale fosse la destinazione degli utili in caso di conferma dell’interdittiva. Nessun dubbio si è mai posto per l’ipotesi in cui venga annullato o sospeso in via definitiva il provvedimento interdittivo: argomentando dal comma 10 e dagli effetti retroattivi del provvedimento giurisdizionale che la gestione temporanea perde immediatamente e retroattivamente il suo presupposto, al pari, di conseguenza, del meccanismo accessorio del congelamento degli utili, i quali vanno corrisposti all’impresa secondo le originarie previsioni contrattuali. Al contrario, discussa era la sorte delle somme giacenti nel fondo nell’opposta ipotesi di rigetto definitivo dell’impugnazione dell’informazione interdittiva.

Si è quindi fatta strada un’interpretazione costante (da qui il riferimento al cd “diritto vivente”) secondo cui qualora l’interdittiva venga confermata, ciò significa che l’impresa non avrebbe potuto proseguire l’appalto, e la prosecuzione è avvenuta solo in virtù della gestione commissariale e per tutela esclusiva dell’interesse pubblico, e pertanto si è stabilito, onde evitare che l’operatore economico interdetto consegua un arricchimento patrimoniale in virtù di un proprio comportamento antigiuridico, che al netto dei costi e rimborsi, gli utili maturati ed accantonati vadano restituiti alla stazione appaltante.

Il TAR Lazio aveva dubitato della legittimità costituzionale della norma, per contrasto col l’Art. 3 Cost. e per la supposta sproporzione; soprattutto nelle ipotesi, quale quella esaminata, in cui l’interdittiva era stata poi revocata.

Tale secondo aspetto non pare invero, ancorchè suggestivo, particolarmente rilevante, essendo ben diversa la successiva revoca frutto di “aggiornamento” dell’interdittiva, ove si dia atto che è cessato il pericolo d’infiltrazione (ma quindi con la conferma implicita che in precedenza lo stesso sussisteva), da una revoca in autotutela che consegua invece ad un riesame “ab origine” della situazione, ovvero all’annullamento in sede giurisdizionale per carenza dei presupposti legittimanti l’adozione dell’interdittiva.

La Corte Costituzionale ha tuttavia ritenuto legittimo l’impianto normativo, in quanto ancorato a prevalenti ragioni di interesse generale e non manifestamente sproporzionato, sicchè , pur riconoscendo che tale misura comporta una restrizione delle libertà di iniziativa economica (basti osservare che l’imprenditore ancorchè interdetto potrebbe svolgere appalti privati, che però non può assumere laddove i mezzi ed il personale siano già impegnati nella prosecuzione dell’appalto pubblico sub commissariamento), la stessa non è stata ritenuta palesemente incongrua, e quindi il test di “proporzionalità” è stato ritenuto rispettato.

Silvio Motta
Partner
Carmelo Barreca
Of Counsel
 

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