La disciplina del D.Lgs 231/2001 e l'evoluzione giurisprudenziale e dottrinale

Il D.Lgs. 231/2001 ha introdotto nell’ordinamento giuridico italiano una specifica forma di responsabilità penale per aziende ed enti in genere, i quali possono essere chiamati a rispondere in sede penale per taluni reati commessi dai vertici amministrativi o dai dipendenti sottoposti al controllo di questi, nell’interesse dell’ente medesimo. Questa specifica forma di responsabilità, intesa come un tertium genus rispetto a quella penale ed amministrativa, è finalizzata alla prevenzione del crimine di natura commerciale e finanziario nell’esercizio dell’attività d’impresa, sul modello dei Compliance Company Programs di natura anglo-americana.

Sulla base di ciò, tale decreto introdusse l’onere per gli enti di definire, adottare, attuare e progressivamente aggiornare un Modello Organizzativo ed istituire un apposito Organismo di vigilanza, così da adeguare la propria organizzazione interna in modo da prevenire e disporre idonee contromisure alla prevenzione dei cd. ‘reati-presupposto’. In tal senso, l’adeguatezza organizzativa divenne il parametro della legalità dell’azione della società nonché dei suoi amministratori.

Scopo di tale normativa fu quello di adeguare la normativa Italiana, in materia di responsabilità delle persone giuridiche, alle Convenzioni Internazionali da tempo sottoscritte dall’Italia, in particolare la Convenzione di Bruxelles del 26 luglio 1995 sulla Tutela degli interessi finanziari della Comunità Europea, la Convenzione di Bruxelles del 26 maggio 1997 sulla Lotta alla corruzione dei funzionari pubblici, la Convenzione OSCE del 17 dicembre 1997 sulla Lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche ed internazionali.

Da ciò si evince chiaramente che, la responsabilità dell’ente è strettamente connessa al reato commesso dalla persona fisica che opera nel suo interesse o a suo vantaggio.

In tal senso, l’art. 5 del D.Lgs 231/2001 stabilisce che la società sarà responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio da:

  • Persone fisiche che rivestono ruoli apicali (funzioni di rappresentanza, amministrazione o direzione dell’ente, esercitando un vero e proprio dominio sull’ente)
  • Persone fisiche sottoposte alla direzione o alla vigilanza di un soggetto in posizione apicale

Dunque, si evince come con tale decreto è stata introdotta la possibilità che tutti gli enti e le società dotate di personalità giuridica nonché le associazioni anche prive di personalità giuridica, possano essere sottoposti a sanzioni (sia di natura pecuniaria che interdittiva) a fronte della commissione di alcuni illeciti penali. Chiaramente, perché si possa configurare tale responsabilità dell’ente, ex D. Lgs 231/2001, dovranno ricorrere determinati presupposti:

  • La commissione di un reato tassativamente compresa nell’elenco di cui agli artt. 24 e seguenti del D. Lgs. 231/2001
  • La persona fisica che ha commesso il reato riveste una posizione apicale o di sottoposto all’interno dell’ente
  • Il reato è stato commesso nell’interesse od a vantaggio dell’ente
  • Sussiste la ‘colpa organizzativa’ dell’ente. Tale fattispecie si configura nel momento in cui, se il reato è stato commesso da un soggetto ‘apicale’, quando non è stato adottato o attuato un Modello Organizzativo idoneo a prevenire reati o quando non è stato incaricato un organismo di vigilanza dotato di poteri di controllo circa l’attuazione di tale modello. Se, invece, il reato è stato commesso da un soggetto ‘sottoposto’, la colpa dell’ente ricorrerà se la realizzazione dell’illecito è stata possibile per l’inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza che incombono sui soggetti ‘apicali’.

Dunque, così come per gli enti l’adozione di un adeguato Modello organizzativo costituisce un vero e proprio onere, al contrario, per gli amministratori, tale onere si trasforma in un vero e proprio dovere. In tal senso, infatti, quando dalla gestione della società potrebbe derivare la configurazione di un’ipotesi di reato, l’organo amministrativo dovrà adottare un Modello organizzativo idoneo a prevenire la commissione di tale reato affidando la supervisione ad un apposito organismo di vigilanza, ottemperando quindi all’obbligo di dotare l’impresa di un’adeguata struttura organizzativa.

Alla luce di ciò, vi sono state numerose pronunce giurisprudenziali inerenti le responsabilità dei singoli amministratori di una società.

Molto importante, in tal senso, fu la sentenza del Tribunale di Milano No. 1774 del 2008 che per la prima volta ha individuato un’ipotesi di responsabilità degli amministratori in sede civile per non aver adottato un adeguato Modello organizzativo ex D. Lgs. 231/2001. In tale caso, in seguito ad un processo penale per i reati di corruzione e truffa nei confronti del Presidente del consiglio di amministrazione di una società e dell’amministratore delegato, entrambi estinti con patteggiamento, veniva successivamente promossa in sede civile azione sociale di responsabilità ai sensi dell’art. 2393 c.c., con richiesta di condanna al risarcimento dei danni causati dalla loro mala gestio della società. Il Tribunale di Milano concluse quindi con una condanna nei confronti di tali amministratori al risarcimento della metà dei danni arrecati in seguito alla mancata adozione di un appropriato Modello organizzativo.

Da ciò si evince quindi che la responsabilità degli amministratori per il danno arrecato alla società potrà ravvisarsi non solo in caso di inerzia ma anche nelle ipotesi di inadeguatezza del Modello organizzativo adottato, rendendo quindi tale onere dell’ente sempre più un vero e proprio obbligo in capo agli amministratori per tutelarsi da eventuali azioni civili nei loro confronti.

In aggiunta, ex art. 2392 e 2394 c.c., si desume come gli amministratori potranno rispondere anche rispettivamente dei danni arrecati alla società così come dei danni arrecati ai creditori sociali nonché ai soci e/o terzi direttamente danneggiati.

Permangono pur sempre sugli amministratori i dovuti obblighi di diligenza nonché di consapevolezza, comprendendo se si hanno le dovute qualifiche per ricoprire un determinato incarico ed in caso contrario dotarsi di un team di dipendenti o consulenti in grado di coadiuvare il lavoro dell’amministratore sopperendo alle sue mancanze e superando eventuali criticità. Assume quindi sempre più importanza la frequenza con cui il consiglio di amministrazione si riunisce al fine di comprendere le iniziative da adottare immediatamente.

Di pari passo alle identificazioni previste ex D.Lgs. No. 231/2001, si pone l’importantissimo Caso Thyssenkrupp il quale fornisce una analisi chiarificatrice nell’ambito della responsabilità degli amministratori stranieri della sede di Torino (Italia) della società tedesca ThyssenKrupp.

Ebbene, la Suprema Corte di Cassazione, con sentenza No. 52511 del 13 maggio 2016, è intervenuta per risolvere una questione fondamentale, oggetto già di numerosi rinvii. In tal senso, il 15 aprile 2011, in seguito ad un incendio presso lo stabilimento Thyssenkrupp di Torino dove morirono inceneriti 7 operai, ci fu la prima pronuncia della Corte di Assise di Torino che condannava l’amministratore delegato della società per i delitti di omicidio volontario ed incendio doloso ed altri 5 dirigenti per i reati minori di omicidio colposo ed incendio colposo. Successivamente, i giudici della Corte di Assise di Appello di Torino, in data 28 febbraio 2013 riqualificarono i fatti contestati e le pene, con i reati di omicidio colposo ed incendio colposo per l’amministratore delegato e diminuendo anche le pene per gli altri dirigenti ovviamente identificando in concorso formale tra loro i vari reati (ex art. 81, c. 1 c.p.).

Con sentenza in data 24 aprile 2014, la Suprema Corte di Cassazione riarticola e riinvia la questione stabilendo che, “non poteva in alcun modo dirsi provato che l’adozione della singola misura cautelare posta a fondamento dell’imputazione ex art. 437 c.p. – cioè la realizzazione di un apposito impianto antincendio nella linea di ricottura e decapaggio – avrebbe evitato il verificarsi dell’incendio realizzatosi nella notte del 5 dicembre 2005”, in conseguenza di ciò, non è in alcun modo identificabile un’ipotesi dolosa in capo agli amministratori della società ma tutt’al più colposa, ciò dal momento che ai dini dell’accertamento del dolo eventuale non base unicamente l’accettazione del rischio del verificarsi dell’evento, ma occorre anche l’adesione all’evento stesso.

In seguito ad ulteriore pronuncia del giudice di rinvio, la Suprema Corte di Cassazione è tornata sull’argomento con pronuncia definitiva No. 52511 del 2016 sottolineando la fattispecie colposa e non dolosa dei reati imputabili (quindi identificando una riduzione di pena per gli amministratori) escludendo unicamente il nesso tra la condotta ipotizzata (realizzazione di apposito impianto antincendio) con l’evento aggravante di cui all’art. 437, c. 2 c.p., e non tra tale condotta e l’evento rilevante ex art. 589 c.p.. Si esclude dunque espressamente soltanto la sussistenza del nesso tra omessa predisposizione di un impianto antincendio e gli infortuni e disastro ex art. 437, c. 2 c.p., ma è del tutto evidente che tale esclusione non può non valere anche rispetto all’evento ‘morte di più persone’ ex art. 589, c. 3 c.p..

Da ciò discende il fatto che, anche nell’identificazione di una responsabilità degli amministratori della società la Suprema Corte di Cassazione invita gli altri giudici ad un approccio più analitico ed attento, maggiormente logico e coerente al fatto in sé, invece che affidarsi unicamente agli astratti principi giuridici e formule senza rapportarli al caso concreto e senza analizzare nel dettaglio gli elementi a disposizione.

Ma la disciplina ex D.Lgs 231/2001 sarà applicabile anche alle imprese ed agli amministratori stranieri?

È ormai opinione più che diffusa che in tema di responsabilità da reato degli enti, la persona giuridica risponde dell’illecito derivante dal configurarsi di un reato presupposto per il quale sussista la giurisdizione nazionale, commesso dai propri amministratori o soggetti a loro sottoposti. Tale responsabilità, però, si configurerà in capo agli enti a prescindere dalla nazionalità e dal luogo dove la società abbia sede legale, nonché dall’esistenza o meno, nello Stato di appartenenza, di norme che disciplinano analoga materia. Ed è proprio questa la conclusione fondamentale cui giunse la Suprema Corte di Cassazione con la sentenza No. 11626 del 7 aprile 2020.

Ebbene, la Suprema Corte, nel motivare tale decisione fece leva sull’art. 1 del D.Lgs. 231/2001 il quale non prevede alcun tipo di distinzione esplicita tra enti italiani od enti stranieri, ed in particolar modo sull’art. 8 che sancisce la responsabilità degli enti sottolineando come, nonostante tale responsabilità sia autonoma, essa deriva pur sempre da un ‘reato-presupposto’ e dunque dalla predisposizione di un Modello organizzativo inadeguato anche se avvenuto all’estero. Dunque, così come per le persone fisiche straniere che commettono un reato nel territorio dello Stato Italiano si applica la legge italiana (ex artt. 3 e 6 del Codice Penale Italiano), l’applicazione agli enti stranieri di una disciplina differente realizzerebbe una chiara ed ingiustificata disparità di trattamento fra la persona fisica straniera e la società straniera. In conseguenza di ciò, quindi, l’ente risponderà al pari di chiunque degli effetti della propria condotta a prescindere dalla nazionalità o dal luogo in cui si trova la sua sede principale, qualora il ‘reato-presupposto’ sia commesso in Italia. Vigerà quindi per l’ente l’obbligo di osservare la legge italiana ed in particolare quella penale, a prescindere dalla sua nazionalità, indipendentemente dall’esistenza o meno nel Paese di appartenenza di norme che disciplinano in modo analogo la stessa materia.

Anche la dottrina si pone sullo stesso piano facendo leva sull’art. 1 del D.Lgs. 231/2001 il quale non effettua alcun tipo di distinzione sulla base della nazionalità dell’ente, dal momento che, se il legislatore avesse voluto tenere in considerazione la nazionalità dell’ente, lo avrebbe fatto così come nell’ipotesi di reati commessi all’estero disciplinati ex art. 4. Tale tesi trova anche l’approvazione nella normativa europea in materia di libera prestazione di servizi e di stabilimento ex art. 49-55 TFUE, così come è in conformità con l’art. 97bis, lett. 5, del Testo Unico Bancario che espressamente applica il D.Lgs. 231/2001 alle succursali italiane di banche comunitarie o extracomunitarie.

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Emanuele di Prisco, LL.M

 

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