La Corte di Cassazione torna sulla clausola del "claims made" in materia di assicurazione per responsabilità per i danni conseguenti all' attività professionale

Tale clausola, come è noto,  limita l’efficacia del contratto assicurativo (e, dunque, la prestazione pecuniaria dell’assicuratore in favore dell’assicurato – o, in casi specifici, direttamente al terzo danneggiato) al solo caso in cui la richiesta di risarcimento – e non l’accadimento del fatto in sé – intervenga  nel corso del periodo di vigenza contrattuale. Sicchè, ove consideri che una richiesta risarcitoria può sempre pervenire molto tempo dopo (purchè entro i termini di prescrizione) è evidente come vi sia un concreto rischio di scollamento temporale tra evento e richiesta risarcitoria.

In tali casi, sostanzialmente, l’assicurato non viene coperto con riguardo all’effettivo  periodo in cui ha tenuto il comportamento fonte di responsabilità (ha commesso l’errore professionale, o si è arrecato il danno al terzo danneggiato) ma, diversamente, in relazione al diverso momento in cui venga richiesto il risarcimento all’assicurato dal danneggiato medesimo.

Si tratta, in buona sostanza, di una formula che limita l’operatività temporale della polizza e, dunque, le facoltà di copertura dell’assicurato. Per tale motivo, la giurisprudenza è tornata a più riprese sull’argomento, vagliandone sotto più profili la validità.

In merito, in via preliminare, urge valutare (trattandosi nel caso in ispecie di clausole a tutela di professionisti dalla responsabilità professionale) che il tema esula dalla sfera di tutela dei contratti del consumatore (e ciò in quanto entrambe le parti stipulano il contratto nell’ambito dell’attività professionale da essi svolta).

Sul punto, pertanto, la giurisprudenza della Corte Suprema ha vagliato in passato il tema della validità della clausola sulla base dei principi generali dell’ordinamento.

In particolare, le Sezioni Unite hanno già ritenuto non vessatoria la clausola in sé e per sé – e pertanto validamente vincolante – e ciò in quanto volta alla delimitazione dei confini dell’obbligazione dell’assicuratore solo a determinate categorie di sinistri (così Cassazione civile , sez. un. , 06/05/2016 , n. 9140). Si tratterebbe pertanto, a detta anche di altre pronunzie delle Sezioni Unite, di una clausola che “(…) concorre a delimitare l'oggetto del contratto piuttosto che la responsabilità dell'assicuratore, di guisa che non può considerarsi vessatoria (…)” (così Cassazione civile , sez. un. , 06/05/2016 , n. 9140).

La clausola, pertanto, è in definitiva valida, sebbene la Corte ha a più riprese sottolineato la necessità di un’indagine volta all’accertamento che la clausola stessa, nella sua formulazione concreta, sia coerente a tutte le norme dell’ordinamento (vd. sul punto anche Cassazione Civile, sez. un. , 24/09/2018 , n. 22437).

Da ultimo, con recente sentenza la Corte Suprema è tornata sull’argomento (vd. Cassazione Civile, III sez., 11 aprile 2023, numero 9613), nuovamente trattando una fattispecie di assicurazione da responsabilità professionale e sulla base di una decisione di merito della Corte d’appello rimettente la quale aveva, in effetti, ritenuto nulla la clausola perché contraria a norme imperative.

In particolare, la pronunzia d’appello giunta al vaglio della Corte di Cassazione aveva ritenuto nulla la clausola in quanto a suo dire la sua previsione renderebbe il contratto inadeguato allo scopo pratico perseguito con il contratto di assicurazione in esame (un’efficace copertura dell’assicurato dai rischi professionali, appunto).

Sul punto, sicuramente la Corte di Secondo grado aveva bene in mente l’importante scollamento temporale che usualmente ricorre fra il comportamento fonte di responsabilità e la richiesta di danno: in particolare, la previsione della clausola giunta al suo esame limitava la copertura al caso in cui il fatto dannoso fosse stato perpetrato negli ultimi due anni prima della stipula del contratto e la richiesta di risarcimento cadesse nello stesso periodo di vigenza.

La Corte di Cassazione si è mostrata però di diverso avviso.

In particolare, la Corte Suprema ha ritenuto che nel caso in ispecie la Corte d’Appello, ben lungi dal valutare la meritevolezza o meno della clausola, abbia sostanzialmente ritenuto il contratto parzialmente nullo ai sensi dell’art. 1419, comma 1, con conseguente venir meno della sola clausola in esame e permanenza della parte residuale del contratto.

In merito, però, la Corte ritiene però che il Giudice del Gravame non sia stato chiaro nell’omettere di individuare quale norma inderogabile dell’ordinamento si assuma come violata.

Una decisione che, in realtà appare salomonica nell’omettere di valutare effettivamente se la clausola in definitiva fosse nulla o meno e, pertanto, mantenendo i dubbi di legittimità in punto di principio della stessa. Sul punto, non rimane che attendere che la Corte d’Appello cui la Corte Suprema ha rinviato il giudizio  definisca se effettivamente la clausola si ponga in contrasto con una norma imperativa e individui i termini di tale conflitto.

 

Silvio Motta

Partner

Carmelo Barreca

Of Counsel

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