La doppia Imposizione tra italia - Regno unito: Lo scenario post Brexit e Covid.

Riferimento normativo

Oggigiorno è sempre più frequente l’ipotesi in cui un cittadino italiano migri all’estero per cercare un impiego. Il fenomeno migratorio ha interessato anche il Regno Unito. Il recesso dell’Inghilterra, la brexit, ha creato molte incertezze. Le suddette hanno riguardato soprattutto il sistema fiscale da applicare in tutti quei casi in cui il cittadino italiano sia lavoratore dipendente nel Regno Unito.

Per questo, al fine di prevenire la doppia imposizione ed evitare che un lavoratore italiano, percependo un solo reddito dalla sua attività nel Regno Unito, possa pagare le imposte in entrambi i paesi, vi è l’applicazione del principio enunciato dall’art. 2, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 (di seguito TUIR), il quale specifica che si considerano residenti in Italia “le persone che per la maggior parte del periodo d’imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del Codice civile”.

Successivamente, nel 1988 è stata stipulata la Convenzione contro le doppie imposizioni tra Italia e Regno Unito, la n. 329 del 05.11.1990, che ha disciplinato i rapporti per i paesi firmatari in quanto essendo una normativa sovranazionale è superiore alla normativa nazionale.

Inoltre, con tale Convenzione contro le doppie imposizioni è prevista la tassazione solo nel paese in cui viene svolto il lavoro dipendente; pertanto, l’Italiano che lavora in Gran Bretagna non può essere tassato in Italia, salvo nel caso in cui il lavoratore italiano, abbia residenza fiscale nel Regno Unito. Ai sensi dell’articolo 24, paragrafo 3, della Convenzione contro le doppie imposizioni tra Italia e Regno Unito “Se un residente dell’Italia possiede elementi di reddito che sono imponibili nel Regno Unito, l’Italia nel calcolare le proprie imposte sul reddito ... può includere nella base imponibile di tali imposte detti elementi di reddito, a meno che espresse disposizioni della presente Convenzione non stabiliscano diversamente. In tal caso, l’Italia deve dedurre dalle imposte così calcolate l’imposta sul reddito pagata nel Regno Unito, ma l’ammontare della deduzione non può eccedere la quota di imposta italiana attribuibile ai predetti elementi di reddito nella proporzione in cui gli stessi concorrono alla formazione del reddito complessivo”.

Domicilio fiscale e tassazione sui redditi: Con lo smart working forzato causa Covid, in quale paese si dovranno pagare le imposte?

Innanzitutto, è importante precisare che per sapere se un soggetto, residente in un paese diverso da quello in cui lavora, è tenuto a pagare le imposte sui redditi percepiti, è importante far riferimento alla residenza fiscale, così come disciplinata dall’articolo 2, comma 2, del TUIR.

Inoltre, bisogna considerare che un lavoratore italiano che svolge la sua attività lavorativa all’estero, deve ugualmente versare le imposte sul reddito anche in Italia, qualora vi sia almeno uno dei seguenti requisiti:

  • Il beneficiario soggiorna sul territorio italiano, per un periodo superiore a 183 giorni nel corso di un qualsiasi anno fiscale;
  • essere iscritto nelle anagrafi comunali della popolazione residente in Italia e non all’aire;
  • avere eletto nel territorio dello stato italiano il proprio domicilio o la propria residenza, ai sensi dell’articolo 43 del Codice civile

qualora sia presente anche solo una di queste fattispecie il lavoratore si considera fiscalmente residente in Italia, in quanto tali tre condizioni sono tra loro alternative.

A causa della pandemia globale dovuta al Covid, molti lavoratori italiani nel Regno Unito hanno preferito tornare nel loro paese e trascorrere la quarantena accanto ai loro cari, avendo la possibilità di lavorare in smart working; pertanto, questa situazione ha causato numerosi problemi in relazione alla prima condizione sopra citata, ed infatti, è utile specificare quanto segue:

  • Il lavoratore italiano che percepisce un reddito dal Regno Unito e risiede per un periodo superiore a 183 giorni all’anno, il reddito sarà tassato nello Stato della fonte, ma dovrà essere dichiarato anche in Italia sulla base del reddito convenzionale, con una detrazione del credito di imposta per le imposte pagate all’estero;
  • Il lavoratore italiano che percepisce un reddito dal Regno Unito, ma risiede in Italia per un periodo superiore a 183 giorni all’anno, i redditi devono essere dichiarati in Italia sulla base del reddito percepito e beneficiano del credito d’imposta.

Per il lavoratore che ha svolto un’attività tramite telelavoro, l’agenzia delle entrate ha risposto con l’art. 15, paragrafo 1, del modello OCSE di convenzione per eliminare le doppie imposizioni, con la quale ha chiarito che: “per individuare lo stato contraente in cui si considera effettivamente svolta la prestazione lavorativa, bisogna avere riguardo al luogo dove il lavoratore dipendente è fisicamente presente quando esercita le attività per cui è remunerato. Si aggiunge che il reddito percepito dal lavoratore dipendente non può essere assoggettato a imposizione nell’altro stato contraente, anche se i risultati della prestazione lavorativa sono utilizzati in detto stato”.

Inoltre, se un lavoratore dipendente di una società Inglese, a causa del covid, ha lavorato dall’estero per l’HMRC (Agenzia delle Entrate Britannica) continua a rimanere un contribuente inglese, ovviamente, sempre qualora non vi siano i requisiti elencati dell’art. 15 della convenzione contro le doppie imposizioni tra Italia e Regno Unito.

Come usufruire dei benefici per i lavoratori impatriati? Chi sono gli impatriati?

Un ulteriore argomento su cui focalizzare l’attenzione sono i lavoratori impatriati, ovvero coloro che trasferiscono la propria residenza in Italia e godono di un regime di tassazione agevolato temporaneo, sebbene tali benefici con la legge di bilancio 2021, in alcuni casi sono stati estesi da 5 a 10 anni.

Tale regime fiscale agevolato, previsto dall’art. 16, comma 1, del decreto legislativo 147/2015, modificato dall’art. 5 del decreto legge 34/2019, che consente di pagare le tasse sul 30 % dell’imponibile, si applica anche a chi lavora in smart working dall’Italia per un’impresa che non opera sul territorio dello stato Italiano, come chiarisce l’Agenzia delle entrate con l’interpello 596/2021, ed è applicabile qualora vi siano due presupposti:

  1. Il lavoratore non è stato residente in Italia nei due anni d’imposta precedenti il trasferimento e si impegna a risiedervi per almeno ulteriori due anni
  2. L’attività lavorativa è svolta prevalentemente nel territorio italiano

Possono accedere al regime agevolato anche i cittadini italiani non iscritti all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (AIRE), purché abbiano risieduto in un altro stato che ha aderito ad una convenzione contro le doppie imposizioni sui redditi.

Con il provvedimento n. 60353 del 3 marzo 2021, l’Agenzia delle Entrate ha optato per una proroga di ulteriori cinque periodi di imposta del regime fiscale degli impatriati, la quale può essere esercitata mediante il versamento in un’unica soluzione e per beneficiare della proroga i lavoratori dipendenti devono fare un apposita richiesta scritta al datore di lavoro, mentre i lavoratori autonomi devono comunicare tale volontà di adesione a tale beneficio nella dichiarazione dei redditi relativa al periodo d’imposta nel quale hanno effettuato il relativo versamento, con i seguenti codici tributo: 1860 (10%) e 1861 (5%).

Per qualsiasi ulteriore chiarimento o curiosità puoi contattare lo studio legale GIAMBRONE & PARTNERS che con i propri professionisti potrà indirizzarti, aiutarti e consigliarti nel migliore dei modi.

Luisanna Accardo

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